I GATTI LO SAPRANNO

di Cesare Pavese

Benvenuti al nostro appuntamento con la poesia.
Oggi proponiamo il commento della poesia I gatti lo sapranno di Cesare Pavese
Buona Lettura!



a cura di Elisa Mazza

I gatti lo sapranno

Ancora cadrà la pioggia
sui tuoi dolci selciati,
una pioggia leggera
come un alito o un passo.
Ancora la brezza e l’alba
fioriranno leggere
come sotto il tuo passo,
quando tu rientrerai.
Tra fiori e davanzali
i gatti lo sapranno.

Ci saranno altri giorni,
ci saranno altre voci.
Sorriderai da sola.
I gatti lo sapranno.
Udrai parole antiche,
parole stanche e vane
come i costumi smessi
delle feste di ieri.

Farai gesti anche tu.
Risponderai parole –
viso di primavera,
farai gesti anche tu.

I gatti lo sapranno,
viso di primavera;
e la pioggia leggera,
l’alba color giacinto,
che dilaniano il cuore
di chi più ti spera,
sono il triste sorriso
che sorridi da sola.

Ci saranno altri giorni,
altre voci e risvegli.
Soffriremo nell’alba,
viso di primavera.

Parafrasi della poesia: I gatti lo sapranno

Ancora cadrà la pioggia sui tuoi dolci sentieri, una pioggia leggera come un alito o un passo. Ancora la brezza e l’alba nasceranno leggere come compagne del tuo passo, quando tu rientrerai. Tra fiori e davanzali, i gatti lo sapranno. Ci saranno altri giorni, ci saranno altre voci. Sorriderai da sola. I gatti lo sapranno. Sentirai parole ripetute, parole stanche e ormai inutili come i costumi smessi delle feste passate. Andrai avanti anche tu. Risponderai alle parole – viso di primavera, andrai avanti anche tu. I gatti lo sapranno, viso di primavera; e la pioggia leggera e l’alba color giacinto, che spezzano il cuore di chi più ti desidera, sono il triste sorriso che sorridi da sola. Ci saranno altri giorni, altre voci e risvegli. Soffriremo soli nell’alba, viso di primavera.

Commento della poesia: I gatti lo sapranno

Cari Lettori, oggi ho scelto una poesia dolceamara, e legata ad un fato avverso.
Cesare Pavese ci ha donato uno dei suoi più bui momenti, trasformando la disperazione in qualcosa di unico, dannatamente bello: come se andasse ad affidare ai gatti, custodi di segreti ma anche chiaro presagio di morte, la donna di cui parla e che sta abbandonando.
Voci dell’epoca ci dicono che il poeta scrisse questa poesia per un’attrice da lui amata, che però lo abbandonò per passare la notte con un altro uomo. L’incontro mancato lo annientò e fece troncare la relazione, e probabilmente (aggiungerei anche purtroppo) sancì il momento in cui Pavese intraprese la strada verso il suicidio. Chiaro esempio nel testo è l’alba “color giacinto” che strazia il cuore del nostro amato scrittore e dove ormai non spera più nel suo amore.
L’amore, questo sentimento che può portare dalla gioia più pura al dolore più nero, è evocato con sensuale malinconia: il suo è un bellissimo demone. Gli elementi naturali richiamano una venere rigogliosa, quasi ultraterrena (e volendo altrettanto crudele) mentre i gatti, che lo sapranno, diventano un macabro ritornello latore di solitudine, disgrazia, addio, segno premonitore di ciò che verrà.
I gatti lo sapranno. È vero, i gatti lo sanno sempre, mai scelta fu più azzeccata.
Mi è piaciuto tantissimo il modo espressivo in cui Pavese ha parlato di Lei e del suo punto di vista traslato: è Lei che si farà forza e i gatti, guardiani e osservatori silenziosi, sapranno quanto sta soffrendo e conosceranno la triste natura dei suoi sorrisi solitari e del vuoto della donna.
Un pensiero fortissimo. Un sentimento estremo. Tutto trasmesso con parole però quasi delicate, carezzevoli e poi, nota triste, cupa, un’improvvisa sanguinante musicalità.
Un Pavese forse non del tutto capito nel suo genio, quest’uomo così tormentato.
Forse sono stata un po’ meno emozionale rispetto al mio solito scrivere, ma questa poesia meritava la sua storia, vera, cruda, bella.

Cesare Pavese

Studia a Torino dove si laurea con una tesi su Walter Whitman. Sin dagli anni Venti legge i maggiori autori americani e inizia a tradurre le loro opere. Fra il 1935 e il 1936, per i suoi rapporti con i militanti del gruppo Giustizia e Libertà viene arrestato, processato e inviato al confino a Brancaleone Calabro. Tornato a Torino inizia a collaborare con la casa editrice Einaudi nel 1934 per la realizzazione della rivista «La Cultura», che dirige a partire dal terzo numero. Nel 1945-46 dirige la sede romana della medesima casa editrice. Ha svolto un ruolo fondamentale nel passaggio tra la cultura degli anni Trenta e la nuova cultura democratica del dopoguerra. Dopo la Liberazione, si iscrive al partito Comunista. Seguono anni di lavoro molto intenso, in cui pubblica le sue opere di maggior successo. Viene trovato morto, per una dose eccessiva di sonnifero, il 27 agosto 1950. Tra le sue opere ricordiamo: Paesi tuoi, Feria d’agosto, Il compagno, Dialoghi con Leucò, La casa in collina, La luna e i falò, Il mestiere di vivere, La bella estate, Tra donne sole, Vita attraverso le lettere.