LA CIOCIARA

di Alberto Moravia

La Ciociara di Alberto Moravia
Genere: classici contemporanei
Editore: Libri Bompiani
Pagine: 322
Edizione: 6 marzo 2021

Cari lettori,
in occasione della nostra rubrica “Penne d’autore” dedicata questo primo mese del nuovo anno ad Alberto Moravia abbiamo pensato di parlarvi de “La Ciociara” opera di grande intensità che abbiamo amato

a cura di Elide

Sinossi:

La ciociara è la storia delle avventure e disavventure di due donne, madre e figlia, costrette a passare un anno vicino al fronte del Garigliano tra il 1943 e il 1944. Ma è anche e soprattutto la descrizione di due atti di violenza, l’uno collettivo e l’altro individuale: la guerra e lo stupro. Dopo la guerra e dopo lo stupro né un paese né una donna sono più quello che erano. È avvenuto un cambiamento profondo, che si manifesterà più tardi in modi imprevisti e incalcolabili; un passaggio si è verificato da uno stato di innocenza e di integrità a un altro di nuova e amara consapevolezza. D’altra parte, tutte le guerre che penetrano profondamente nel territorio di un paese e colpiscono le popolazioni civili sono stupri; più di tutte quella che, per la prima volta nei tempi moderni, rastrellò l’Italia intera, dal Sud al Nord, portando nelle località più isolate e ignare le armi e l’arbitrio delle popolazioni straniere. La ciociara non è un libro di guerra; è un romanzo in cui la guerra è vista con gli occhi di chi la soffrì senza combatterla: i civili, con le loro speranze, avventure e delusioni, che in un primo momento si illusero forse di restarne fuori e poi ebbero a soffrirne le peggiori conseguenze. È una storia che narra l’esperienza umana di quella violenza profanatoria che è la guerra.

Recensione

«Così è la guerra, pensai: tutto sembra normale e invece, sotto sotto, il tarlo della guerra ha camminato e gli uomini hanno paura e scappano, mentre la campagna, lei, continua, indifferente, a buttar fuori frutta, grano, erba e piante come se nulla fosse»

Correva l’anno 1957 quando “La Ciociara”, opera frutto dell’esperienza vissuta in prima persona da Alberto Moravia durante i nove mesi di permanenza in quel di Fondi, ovvero tra il 1943 e il maggio 1944, prese forma per prendere poi posto tra gli scaffali delle librerie e nel cuore dei lettori in modo indelebile.

Ed è traendo spunto da un fatto realmente accaduto che viene introdotto il personaggio di Cesira, donna di origine contadina della Ciociaria, trasferitasi a Roma a seguito del matrimonio con un pizzicagnolo deceduto prematuramente, che a questa lascia in eredità un negozio (a cui si affianca l’attività di borsa nera dalla stessa posta in essere), una abitazione e una figlia, Rosetta. Quest’ultima ha un ruolo in crescita e in evoluzione nell’opera, ma andiamo per gradi. In queste prime pagine la conosciamo quale una figura devota, giovane, ingenua, dall’animo cristallino e puro.

Ma la vita cittadina diventa sempre più complessa e difficile. Il pericolo è imminente, la guerra un alito che senti sulla schiena. Ecco perché Cesira decide di abbandonare la capitale per tornare tra quelle campagne che l’hanno vista nascere. Sistemate le questioni burocratiche il viaggio ha inizio e sin da subito si dimostra ricco di minacce, rischi e azzardi. Tutto ha però un prezzo, anche la mera sopravvivenza che cercano di raggiungere le due donne tra quei monti, tra quei pastori tanto furbi quanto disperati, tra quella povertà e ignoranza che porta un giorno a sostenere i nazisti e fascisti, l’altro gli americani e la liberazione.

Tra questi volti e queste voci soltanto Michele, personaggio chiave del titolo, si è realmente reso conto di quel che significa la Guerra e di cosa questa rappresenta davvero. Perché questa non è solo morte e distruzione, quanto anche oltraggio all’essere, alla cultura, alla tradizione, all’individuo, alla libertà, al vivere e al vivere dignitosamente. Perché il conflitto colpisce nell’anima, colpisce l’onestà, trasforma, muta, plasma a sua immagine e somiglianza e rende irriconoscibile il proprio volto.

«”Se tu sapessi di dover morire domani, parleresti di roba da mangiare?” “No”. “Ebbene, noi siamo in questa condizione. Domani o tra molti anni, non importa, moriremo. E dovremmo, dunque, in attesa della morte, parlare e occuparci di sciocchezze?” Io non capivo bene e insistetti: “Ma di che cosa dovremmo allora parlare?” Lui ci pensò ancora una volta e disse: ”Nella presente situazione in cui ci troviamo, per esempio, dovremmo parlare delle ragioni per cui siamo finiti qui.” “E quali sono queste ragioni?” Egli si mise a ridere e rispose: “Ciascuno di noi deve trovarle da sé, per conto suo”. Io dissi allora: ”Sarà, ma tuo padre parla di roba da mangiare appunto perché questa manca e si è, per così dire, costretti a pensarci per forza”. Lui concluse allora:” Può darsi. Il guaio si è, però, che mio padre parla sempre di roba da mangiare, anche quando c’è e non manca a nessuno”.»

Trascorrono in mesi e giunge quell’agognata liberazione. Le sicurezze distribuite dagli americani sono effimere, tutto deve essere ricostruito. Perché cosa può restare ora che anche il passaggio dei liberatori è giunto? E cosa ne è adesso di quei personaggi che abbiamo conosciuto? Sono ancora gli stessi? No, non sono più loro ed è Rosetta, a dimostrarcelo, colei che in quei mesi ha perso quegli occhi ingenui con i quali guardava al mondo.

“La Ciociara” ci porta indietro nel tempo, ci fa rivivere anni di sottrazioni e privazioni e di perdita di noi stessi. Ci porta a interrogarci e nulla ci risparmia. E lo fa con un linguaggio forte indossato sulla voce di eroi che nella loro semplicità sono vividi e tangibili con mano, sono concreti. Ed è per mezzo di questa donna, di questa voce, di questa Ciociara, che ricostruiamo il volto di un tempo, che ne respiriamo le essenze e il lascito.

“La Ciociara” non è solo la storia di uomini e donne durante il tempo di guerra. “La Ciociara” non è soltanto la storia di una madre e di una figlia, di quello di cui sono state private, di quel che non potranno più avere. “La Ciociara” è la storia di quel che è stato privato e tolto all’Italia stessa, a un paese piegato da un regime fascista e vittima di quelle che ne sono state le conseguenze. Uno Stato che deve rinascere dalle proprie ceneri per ritrovare il proprio volto perduto e declinarlo al futuro.
Questo e molto altro è “La Ciociara”. Buona lettura!

«Si, lui, di certo, mi aveva spiegato in poche parole il senso della vita, che a noi vivi sfugge, ma per i morti deve essere, invece, chiaro e lampante; e la mia disgrazia aveva voluto che io non capissi quello che lui diceva, benché quel sogno fosse stato veramente una specie di miracolo; e i miracoli, si sa, sono miracoli appunto perché tutto vi può succedere, anche le cose più incredibili e rare. Il miracolo c’era stato, ma soltanto a metà: Michele mi era apparso e mi aveva impedito di uccidermi, era vero, ma io, per colpa mia di certo, perché non ne ero degna, non avevo inteso perché non avrei dovuto farlo. Così dovevo continuare a vivere; ma come prima, come sempre, non avrei mai saputo perché la vita era preferibile alla morte»

Il nostro giudizio:
Trama:vOTO 5/5
Stile:Voto 5/5
Piacevolezza:Voto 5/5
Copertina:Voto 5/5
Voto finale:Voto 5/5

Alberto Moravia

Alberto Moravia esordì giovanissimo pubblicando, a sue spese, il primo romanzo, Gli indifferenti (1929). Penetrante e spietato ritratto della borghesia italiana agli inizi del fascismo, l’opera rivelò immediatamente, nella incisività di una prosa secca e analitica, la maturità di uno scrittore capace fin da allora di far tesoro delle diverse lezioni dei grandi modelli europei, dalla oggettività di De Foe alla problematicità dei romanzieri russi (specie Dostoevskij), al realismo tipologico dei francesi dell’Ottocento. Il romanzo, accolto con ostilità dalla cultura fascista che ne proibì la diffusione, fu salutato con entusiasmo solo da pochi critici accorti (Borgese, Pancrazi, Solmi).
M. cominciò poi a collaborare a riviste e quotidiani, e scrisse un secondo ampio romanzo, Le ambizioni sbagliate (1935), la cui resa analitica, delle psicologie e delle ideologie, è meno felice, se non velleitaria. Colpito dalle leggi razziali, M. fu costretto a firmare i propri articoli con uno pseudonimo, ma continuò a pubblicare racconti (L’imbroglio, 1937; I sogni del pigro, 1940); la satira grottesca di un dittatore sudamericano, La mascherata (1941), fu censurata alla seconda edizione.
Del 1944 è il romanzo breve Agostino, prova esemplare di analisi dei turbamenti di un adolescente alla rivelazione della sessualità. Segue il pamphlet La speranza, ossia cristianesimo e comunismo (1945), che testimonia di un primo approccio alle tematiche marxiste. La successiva produzione narrativa è intensissima: escono La romana (1947), La disubbidienza (1948), L’amore coniugale e altri racconti (1949), Il conformista (1951), Il disprezzo (1954), Racconti romani (1954), La ciociara (1957), Nuovi racconti romani (1959). Al 1958 risalgono i primi testi teatrali, con la riduzione della Mascherata e con Beatrice Cenci. Nel 1953 M. fonda «Nuovi Argomenti», con A. Carocci, e inizia la propria collaborazione al «Corriere della sera» con racconti e reportages. Questi ultimi saranno via via raccolti in diversi volumi (Un mese in URSS, 1958; Una idea dell’India, 1962; La rivoluzione culturale in Cina, 1968; A quale tribù appartieni?, 1972; Lettere dal Sahara, 1981). Dal 1955 svolge anche attività di critico cinematografico per il settimanale «L’Espresso» (una raccolta di cronache è apparsa col titolo Al cinema, 1975). Nel 1960 La noia (premio Viareggio) ripete il successo dei primi romanzi; seguono opere di impegno diseguale, in cui però il registro narrativo di M. si arricchisce di forme nuove, ora riecheggiando modalità del romanzo sperimentale (soprattutto dell’école du regard), ora approfondendo temi psicoanalitici, con particolare richiamo alle problematiche reichiane sulla sessualità: L’attenzione (1965), Il paradiso (1970), Io e lui (1971), Boh (1976), La vita interiore (1978), 1934 (1982), La cosa (1983), L’uomo che guarda (1985), Viaggio a Roma (1988), Palocco (1990). A questa produzione narrativa si accompagnano ancora lavori drammatici (Il dio Kurt, 1968; La vita è gioco, 1969) e saggi (da ricordare il volume L’uomo come fine e altri saggi, 1963; e le riflessioni sul proprio engagement in Impegno controvoglia, 1981). È stato anche deputato al parlamento europeo (dalla cui esperienza è nato il Diario europeo, postumo, 1993). Postumi sono usciti anche l’Autobiografia (1990, con A. Elkann) e La donna leopardo (1991).
Il personaggio dello scrittore e dell’intellettuale militante, disponibile a intervenire in campi diversi, in nome di una passione civile e di una curiosità culturale rimaste intatte attraverso decenni, rende M. esemplare di un «impegno» teso costantemente alla razionalità. I diversi modelli letterari che ha frequentato nella sua lunga carriera di narratore, tendenzialmente concentrati attorno al registro del realismo, gli hanno suggerito ampie indagini sulle metodologie e patologie delle classi sociali (privilegiata, in questo, l’alta e media borghesia). Nelle opere più tarde la sua prosa scarna (talora fino all’aridità) appare orientata ad amplificare le strutture dialogiche, quasi ad accentuare e variare – nel senso di una confessione psicoanalitica – il monologo interiore, tipico della grande narrativa novecentesca. Il sesso diviene il filtro per vagliare i rapporti tra individuo e società, tra es e super-io, e indica anche la fedeltà a una tematica marxista e freudiana che M. mostrò di aggiornare con le più recenti ideologie della trasgressione, nel «politico» e nel «privato» (psicoanalisi selvaggia, femminismo ecc.).
(da Garzantine Letteratura)