RESISTENZA E LETTERATURA

Resistenza e letteratura

a cura di Rosa Zenone

Buongiorno amici lettori, oggi vogliamo celebrare con voi questo 25 Aprile, una commemorazione molto spesso soggetta a polemiche e di cui si trascura l’importanza, probabilmente senza di essa oggi non saremmo così liberi, neanche di pubblicare il presente articolo, così come forse vedremmo annientate tutte le altre nostre libertà basilari. Perché non è solo da intendersi come data di fine del secondo conflitto mondiale, ma anche come termine del regime fascista, una pagina scura del nostro paese, buia come tutti i governi dittatoriali riescono a essere.

Ma non vogliamo rievocare la memoria della festa della liberazione tramite accenni storici, bensì riviverla attraverso le parole delle grandi penne che vi hanno assistito e che, in molti casi, vi hanno contribuito. È innegabile d’altronde che la nostra liberazione sia debitrice alla Resistenza, a tutti quei giovani che per un ideale di libertà sacrificarono tutto ciò che avevano, anche la propria vita. Ecco dunque che quest’oggi vogliamo proporvi diverse e famose letture incentrate sulla tematica partigiana con le differenti prospettive dei rispettivi autori, così da poterne ripercorrere e riviverne la memoria; in un percorso di Resistenza e letteratura, dove la prima prende nuova e imperitura forma nella seconda.

La Resistenza nei romanzi

Come accennavamo, diversi scrittori del Novecento hanno preso parte al movimento partigiano, e tale esperienza non poteva certo rimanere fuori dalla loro materia scrittoria. La maggior parte di questa produzione appartiene al Neorealismo, una corrente sviluppatasi in quegli anni e che predilige un linguaggio semplice e immediato, con finalità di riflessione e impegno sociale attraverso una rappresentazione analitica degli eventi.

IL partigiano Johnny

Trattando tali tematiche non può non venire in mente un nome che vi è particolarmente legato, quello di Beppe Fenoglio (1922- 1963) e della sua opera più famosa, il Partigiano Johnny, pubblicato postumo nel 1968.  Il protagonista, rientrato sulle proprie colline in seguito all’armistizio, è attanagliato da una forte insofferenza; dunque si unisce ai partigiani per motivi morali ed esistenziali, e non ideologici politici. Tale scelta si configura quasi quale sfida personale che conduca a un senso e a una maturazione di sé, dunque assume una natura profondamente intimistica e personale.

” (…) ed era rassicurante, incoraggiante, euforico, sentire che nella tenebra si era come sul ciglione dell’abisso del nulla, da guadagnare d’un sol passo contro l’avventante pericolo e morte.”

Ciò che risalta è la rappresentazione di una Resistenza al di fuori dell’epica celebrativa. Anche la violenza, profondamente indagata nelle sue opere, è vista quale condizione onnipresente e assoluta umana, una condizione che talvolta può sfociare in guerra. Cronologicamente Il partigiano Johnny si pone come continuazione di Primavera di Bellezza (1959), dove Johnny, allievo ufficiale, fugge in seguito all’armistizio di Cassibile per entrare nelle file dei partigiani. Entrambi i romanzi sono profondamente autobiografici.

La produzione di Fenoglio risente in modo particolare della sua esperienza all’interno della Resistenza, ma non è l’unico scrittore ad averla maturata e riportata su carta; infatti, non sono da meno Elio Vittorini, Renata Viganò, Italo Calvino e Carlo Cassola.

Uomini e no

Riflessioni inerenti la brutalità e la natura umana sono argomento anche dell’opera di Elio Vittorini(1908-1966), Uomini e no (1945). Il titolo, particolarmente emblematico, indica la contrapposizione tra il male, la società fascista, e il bene, ossia la Resistenza; tra ciò che è bestialità e violenza, e ciò che è umano, domandandosi se le prime non siano comunque appartenenti all’ultimo elemento.

“Questo anche è l’uomo. Il Gap (Gruppi partigiani di azione patriottica) anche lo è? Per Dio se lo è! (…) Qualunque cosa lo è anche, che venga su dal mondo offeso e combatta perl’uomo. Anch’essa è l’uomo. (…) Noi abbiamo anche Hitler oggi. E che cos’è? Non è uomo? Abbiamo i tedeschi suoi. Abbiamo i fascisti. E che cos’è tutto questo? Possiamo dire che non è, questo anche nell’uomo? Che non appartenga all’uomo?”

Le riflessioni e i commenti dell’autore sono distinguibili in corsivo e corredano la storia, il cui protagonista è Enne 2, partigiano di Milano, il sui impegno nella lotta si intreccia all’amore verso una donna di nome Berta.

Fausto e Anna

L’intreccio amoroso sullo sfondo della Resistenza ha particolare rilievo nell’opera Fausto e Anna(1952) di Carlo Cassola (1917-1987), scrittore che aderì anche al manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce. La narrazione copre uno spazio lungo, dagli anni ’30 alla fine della guerra, parte dall’amore dei due giovani protagonisti conducendoli poi all’età adulta. Anna è salda e ancorata alla semplicità della vita, mentre Fausto è invece l’intellettuale borghese tormentato, in bilico tra il cedere a un’ordinaria esistenza e ai suoi valori e il rigettarli completamente, che si ritrova a divenire partigiano senza però un saldo sostrato ideologico.

” “Ho creduto per un momento di essere comunista, ma poi mi sono accorto che non lo ero.” Cos’era allora? “Sono un partigiano. Non sono nulla, assolutamente. Sono un uomo. Vivo, amo. Ma che cos’è la vita? Che cos’è l’amore? Ho ventisette anni”, ripeté; ma con quella frase non riusciva più a far presa sulla complicata vicenda di eventi e di sentimenti che fluivano in lui e intorno a lui.”

Altro romanzo di Cassola che lega Resistenza e amore è la Ragazza di Bube (1960), vincitore del premio strega; al centro l’amore tra Mara e il partigiano Bube, complicato, all’indomani della liberazione, da un delitto commesso dall’uomo e dalla sua conseguente cattura. La trama è ispirata a una storia vera, quella di Nada Giorgi e di Renato Ciandri.

L'Agnese va a morire

La Resistenza però non fu solo fatta da uomini, ma anche da donne. A tal proposito non possiamo tralasciare L’Agnese va a morire(1949) di Renata Viganò (1900-1976), alla quale abbiamo dedicato la recensione di oggi, con la sua protagonista sempre più calata e impegnata nella vita partigiana. 

“Era stata con loro come la mamma, ma senza retorica, senza dire: io sono la vostra mamma. Questo doveva venir fuori coi fatti, col lavoro. Preparargli da mangiare, che non mancasse niente, lavare la roba, muoversi sempre perché stessero bene.” 

L’opera inquadra il fenomeno da vicino, mostrandone i risvolti e gli aspetti e arriva a delinearne una chiara fotografia.

Il sentiero dei nidi di ragno

Punto di vista particolare e inedito, basato su un gioco di rovesciamenti e trasposizione, è quello che ritroviamo nel primo romanzo di Italo Calvino (1923-1985), Il sentiero dei nidi di ragno (1947). Protagonista è Pin, un bambino ligure che viene incarcerato per aver rubato una pistola a un tedesco. Grazie a un partigiano riesce a evadere, e in seguito si ritrova coinvolto nella Resistenza sulle montagne. Calvino pone un evento reale in un’atmosfera quasi fiabesca e la inquadra dal punto di vista di un bambino incapace di comprendere il mondo degli adulti. Tale scelta è dovuta all’intenzione di rendere la vera essenza della Resistenza senza ricorrere a una facile “agiografia”. Per lo stesso motivo, in una sorta di rovesciamento e di straniamento, anche i partigiani della banda di Calvino non sono esempio di virtù e celebrazione, e ciò non con il fine di sminuirne il valore, ma bensì per sottolineare come ciò non tolga valore alla lotta e ne esalti la voglia di riscatto, come sostenuto dallo stesso autore.

«D’accordo, farò come se aveste ragione voi, non rappresenterò i migliori partigiani, ma i peggiori possibili, metterò al centro del mio romanzo un reparto tutto composto di tipi un po’ storti. Ebbene: cosa cambia? Anche in chi si è gettato nella lotta senza un chiaro perché, ha agito un’elementare spinta di riscatto umano, una spinta che li ha resi centomila volte migliori di voi, che li ha fatti diventare forze storiche attive quali voi non potrete mai sognarvi di essere». (Italo Calvino)

La casa in collina

Non tutti parteciparono attivamente alla guerra, ne è un esempio Cesare Pavese (1908-1950) con La casa in Collina (1948), un’opera molto autobiografica. Il maestro Corrado, al pari dell’autore, si è rifugiato in collina e non prende parte alla Resistenza, al contrario di un altro personaggio, Dino. Un romanzo basato su numerose dicotomie di un protagonista lacerato a livello esistenziale, tra queste l’indecisione tra l’assumere o no un impegno attivo nella guerra. L’intera narrazione è dal punto di vista di Corrado, quale spettatore inerme, immerso nella propria solitudine, che cerca di rifuggire, inutilmente, le brutture della guerra, da cui neppure la campagna può più scamparsi.  Dalla sua posizione però si rivela in grado di fornire incisive osservazioni inerenti la situazione storica e la vita.

“Ci si sente umiliati perché si capisce – si tocca con gli occhi – che al posto del morto potremmo essere noi. Non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione”.

La Resistenza in poesia

La tematica della Resistenza non trova spazio unicamente nella prosa, ma anche in poesia, sono numerosi i componimenti sull’argomento. Noi abbiamo selezionato tre autori differenti tra loro per stile e posizioni in merito.

Il primo prese parte attiva al movimento partigiano ed è Gianni Rodari (1920-1980). L’opera che vogliamo menzionare è Compagni fratelli Cervi del 1955. Un poema composto in occasione dell’ottantesimo compleanno di Alcide Cervi, padre dei famosi sette fratelli Cervi, che sacrificarono la propria vita nella Resistenza in nome dei propri ideali antifascisti. Rodari ne consacra la memoria, una memoria eterna che continua a vivere e a dare frutti al di là della loro morte.

“(…)Vecchio nodoso come un olmo antico,
pianta potata dai miei sette rami,
che dura scorza gli anni e il nemico
hanno fatto al mio volto, alle mie mani.
I Cervi, è buona terra : ara, nemico,
affonda il vomero nelle mie carni,
coi pugnali dell’erpice colpisci:
morte puoi darmi, male non puoi farmi.
È buona terra questa carne antica.
mieti, nemico, le mie sette spighe :
il grano non muore nel pane,
non sono morti i miei sette figli
che hanno dato la vita alla vita.
In tutto ciò che vive sono vivi,
in tutto ciò che spera sono vivi,
in tutto ciò che soffre e lotta vive
i miei figli per sempre sono vivi. (…)”

Diversa fu invece l’esperienza di Pier Paolo Pasolini (1922-1975) che non partecipò direttamente alla Resistenza ma la cui vita vi fu fatalmente legata. Infatti, il fratello Guido, unitosi al gruppo partigiano di Osoppo, di ispirazione cattolica, perse la vita assieme ai propri compagni nell’Eccidio di Porzûs (7 febbraio 1945) ad opera di una banda partigiana di orientamento garibaldino comunista. Tale evento influì notevolmente sulla vita e la produzione dello scrittore.

Le differenti scelte dei due fratelli e il loro contrasto sono già presenti nella sua prima opera teatrale, I turcs tal Friul(1944), opera inerente l’invasione turca del Friuli in un chiaro parallelismo con l’occupazione nazista.  Nel dramma infatti vi sono due fratelli votati rispettivamente all’azione armata e alla riflessione, sarà facile dunque scorgervi Guido e Pier Paolo. Ma la tematica della Resistenza trova sviluppo soprattutto sul piano poetico, con La resistenza e la sua luce in Religione del mio tempo (1961). In questa Pasolini spiega come la Resistenza sia apparsa ai suoi occhi come una luce di giustizia, dunque come l’occasione di un rivoluzionario cambiamento, ma come poi tale luce si sia affievolita e non abbia portato alla svolta sperata: “un’incerta alba”, un nuovo inizio solo apparente.

“(…) Quella luce era speranza di giustizia:
non sapevo quale: la Giustizia.
La luce è sempre uguale ad altra luce.
Poi variò: da luce diventò incerta alba,
un’alba che cresceva, si allargava
sopra i campi friulani, sulle rogge.
Illuminava i braccianti che lottavano.
Così l’alba nascente fu una luce
fuori dall’eternità dello stile …
Nella storia la giustizia fu coscienza
d’una umana divisione di ricchezza,
e la speranza ebbe nuova luce.(…)”

Il motivo della “luce mancata” e dunque della conseguente delusione, è presente anche in Lacrime, sempre tratta da Religione del mio tempo (1961), sottolineando come la luce fosse stata solo un sogno ingiustificato portatore di inutile morte.

“(…)Non so perché‚ trafitto
da tante lacrime sogguardo
quel gruppo di ragazzi allontanarsi
nell’acre luce di una Roma ignota,
la Roma appena affiorata dalla morte,
superstite con tutta la stupenda
gioia di biancheggiare nella luce:
piena del suo immediato destino
d’un dopoguerra epico, degli anni
brevi e degni d’un intera esistenza.
Li vedo allontanarsi: ed è ben chiaro
che, adolescenti, prendono la strada
della speranza, in mezzo alle macerie
assorbite da un biancore ch’è vita
quasi sessuale, sacra nelle sue miserie.
E il loro allontanarsi nella luce
mi fa ora raggricciare di pianto:
perché? Perché non c’era luce
nel loro futuro. Perché c’era questo
stanco ricadere, questa oscurità
Sono adulti, ora: hanno vissuto
quel loro sgomentante dopoguerra
di corruzione assorbita dalla luce,
e sono intorno a me, poveri uomini
a cui ogni martirio è stato inutile,
servi del tempo, in questi giorni
in cui si desta il doloroso stupore
di sapere che tutta quella luce,
per cui vivemmo, fu soltanto un sogno
ingiustificato, inoggettivo, fonte
ora di solitarie, vergognose lacrime.(…)”

Chiudiamo la nostra panoramica con un’altra poesia basata sulla metafora della luce, Per i morti della Resistenza nella raccolta Nuove (1968-1970), confluita in Vita di un Uomo.Tutte le poesie, di Giuseppe Ungaretti. Un poeta che in un primo momento aveva accolto con entusiasmo il fascismo, ma che è stato in grado di rivedere la propria posizione nel dopoguerra e donarci dei versi memorabili. La poesia è dedicata a tutti coloro che sacrificarono la propria vita per donare la libertà a tutti gli altri, contrapponendo una doppia accezione del significato di luce. Chiudiamo dunque in questo modo la nostra panoramica, con il significato profondo della Resistenza che Ungaretti è riuscito a condensare in pochi versi.

“Qui vivono per sempre
gli occhi che furono chiusi alla luce
perché tutti li avessero aperti
per sempre alla luce.”