TRALUMMESCURO. BALLATA PER UN PAESE AL TRAMONTO

di Francesco Guccini

Tralummescuro

Tralummescuro. Ballata per un paese al tramonto di Francesco Guccini
Editore: Giunti Editore
GenereNarrativa
Pagine288
Edizione17 Settembre 2019

a cura di Rosa Zenone

Buongiorno cari lettori e buona domenica a tutti voi! Oggi, in via del tutto eccezionale, pubblichiamo in un giorno non feriale per celebrare un uomo eccezionale dei nostri tempi: Francesco Guccini, che oggi compie ottant’anni. Cantautore di grande fama e largo spessore intellettuale, ha incantato intere generazioni con i suoi testi poetici quanto profondi, a tal punto da essere assurto a vero e proprio mentore da molti di noi. Guccini è quel tipo di intellettuale che oggigiorno comincia a scarseggiare, quello eclettico e ampiamente erudito: la sua figura non si risolve solo nelle sue canzoni, né tantomeno semplicemente nell’enunciazione delle sue idee ed opinioni, egli infatti si è saputo cimentare degnamente anche nel ruolo di autore. Ed è proprio su questo suo ultimo aspetto che vogliamo soffermarci in questo giorno trattando il libro, che l’ha portato tra i cinque finalisti del Premio Campiello 2020, Tralummescuro. Ballata di un paese al tramonto. Prima di entrare in res non possiamo trascurare però di fare i nostri migliori auguri a Guccini e di ringraziarlo per quanto ci ha donato in questi ottant’anni della sua vita.

Sinossi

Francesco Guccini non canta più, ma la sua voce si leva di nuovo per noi, alta, forte, piena di poesia, per consegnarci un’opera che è testamento e testimone da raccogliere, in attesa di una nuova aurora del giorno.
Radici è il titolo di uno dei primi album di Francesco Guccini, e radici è la parola che forse più di tutte rappresenta il cuore della sua ispirazione artistica. Radici sono quelle che lo legano a Pàvana – piccolo paese tra Emilia e Toscana dove sorge il mulino di famiglia, vera Macondo appenninica ormai viva nel cuore dei lettori – e radici sono quelle che sa rintracciare dentro le parole, giocando con le etimologie fra l’italiano e il dialetto, come da sempre ama fare.
Oggi Pàvana è ormai quasi disabitata, i tetti delle case non fumano più. È in questo silenzio che il narratore evoca per noi i suoni di un tempo lontano, in cui la montagna era luogo laborioso e vivo, terra dura ma accogliente per chi la sapeva rispettare. Rinascono così personaggi, mestieri, suoni, speranze: gli artigiani all’opera in paese o lungo il fiume, i primi sguardi scambiati con le ragazze in vacanza, i giochi, gli animali e i frutti della terra, un orizzonte piccolo ma proprio per questo aperto all’infinito della fantasia.
Tra elegia e ballata, queste pagine sono percorse da una continua ricerca delle parole giuste per nominare ricordi, cose e persone del tempo perduto; la malinconia è sempre temperata dalla capacità di sorridere delle umane cose e dalla precisione con cui vengono rievocati gesti, atmosfere, vite non illustri eppure piene di significato.

Recensione

Ammetto di aver impiegato un po’ di tempo per avvicinarmi al Guccini autore e di aver compiuto questo fatidico passo proprio con l’opera in questione. Tale è la riverenza che nutro nei confronti della sua figura e delle sue poesie canore da aver avuto timore nell’approcciarmi a un altro tipo di Guccini a me ignoto, sapevo che avrei nutrito aspettative oltremodo elevate e che lo avrei accettato malvolentieri qualora mi avesse privato anche di una sola briciola delle emozioni che mi suscita ascoltandolo. Ebbene, alla fine mi sono trovata a dover chiedere scusa a me stessa per essermi privata così a lungo della possibilità di poterlo venerare anche quale scrittore di libri.

“Tralummescuro” era dialetto, quando tutti parlavano dialetto, e lo traduci con “all’imbrunire”, ma senti che non è la stessa cosa. Ti viene in mente il profeta Isaia, ma all’incontrario, perché egli parla della notte che sta per farsi giorno. Tralummescuro è la luce, il chiarore (la lumme) che sta per diventare buio, la notte (lo scuro) e di notte, alora, era scuro davera. Adessa non passa più nesuno e anche il Mulino è privo di voci; anche di là da l’acqua non ci va più nessuno, a legare le viti, a zapetare un campetto, a rubare le ciliege, e la mulattiera è mezzo crollata. Tralummescuro è di un mondo, di una civiltà che non esistono più. Di gente che non c’è più. Verodìo.

Il titolo Tralummescuro, termine dialettale, denota, come lo stesso Guccini dichiara, l’imbrunire. Tale termine assurge a leitmotiv della narrazione: al centro infatti la luce di un luogo che è destinata a tramontare e a scomparire nelle tenebre, quella del paesaggio montano di Pàvana, paese del pistoiese ai confini con l’Emilia Romagna. Un posto al quale è particolarmente legato, nel quale ha trascorso la sua infanzia e dove vive stabilmente attualmente.

Le parole scorrono veloci così come scorre il tempo che ci separa dal passato che fu, attraverso un lungo flusso di memoria riemergono ricordi della vecchia Pàvana e della sua civiltà rurale. Attraverso le ampie sezioni descrittive ci trasporta in quel tempo lontano scandito dalle stagioni e vissuto in simbiosi con la natura, in uno scenario che potremmo definire quasi arcadico, se non fosse per le dure fatiche e le ristrettezze che denotano la vita degli abitanti. Ma nonostante ciò ne trapela una vita serena, incentrata su sani e saldi valori ben distanti dai vezzi leziosi odierni.

Si distaccano nitide, quelle immagini, vivide nel ricordo, come di oggetti balzanti fuori da una cartolina, un’immagine che si distende e si apre come un diorama della memoria.

Le immagini sono rese con una così rara efficacia da spalmarsi dinanzi ai nostri occhi e far provare nostalgia dei tempi andati perfino a chi è troppo giovane per averli vissuti. Il passato è celebrato e circondato da un alone di rimpianto e malinconia tanto più forte a causa del continuo rapporto dialettico che l’autore intreccia con il presente: se la Pàvana di ieri appare pervasa dalla vitalità, quella di oggi è inerme, vuota, quasi abbandonata a se stessa. Non solo non vi sono più i numerosi abitanti e villeggianti di una volta, a essere scomparsi sono anche le mansioni quotidiane, le abitudini, i riti, i mestieri, insomma tutto ciò che apparteneva e caratterizzava quella cultura, intesa nel senso più vasto possibile. Con accuratezza Guccini richiama a sé tutto che ciò vi confluiva, dedicando particolare attenzione ai dettagli. Non in modo più approssimativo egli si sofferma anche nel delineare i cambiamenti del paesaggio, soffermandosi con rigore anche sulla fauna e la flora.

Il quadro passato che se ne ricava è carico di un tale fascino da sembrare assumere contorni onirici, generando in noi un senso di rilassamento e serenità… perlomeno fino a quando non ci si scontra con le riflessioni dell’autore circa l’immagine presente; egli riesce a condividere pienamente con noi lettori le proprie emozioni e a rendercene totalmente partecipi.

La narrazione assume il carattere di una rievocazione di ricordi corredata a una lunga riflessione, di un momento intimistico con se stessi ma eseguito a voce alta; Guccini infatti parla a un “tu” che è egli stesso. Commenta, precisa, sottolinea passaggi, medita, il tutto con acuta profondità, ma anche con schiettezza, spontaneità e perspicacia, in realtà non mancheranno anche momenti sagacemente ironici.

(…) ti vien da cridare a vedere lo scempio, e tiri tante di quelle madonne che ti aspetteresti di vedere venire giù dal cielo un messo divino a far finire l’orrenda blasfemia

Elemento a dir poco sublime dell’opera è il linguaggio, dotato di un’espressività, sonorità e un calore quasi senza precedenti. Ricercato, curato e raffinato amalgama lessemi del dialetto pavanese, toscanismi ed emilianismi, termini di cui chiarisce la provenienza e il significato al termine dei capitoli e del libro. Nella sua celebrazione del passato riesce così a far rivivere il dialetto ormai quasi dismesso, conferendogli nuova luce e omaggiandolo in modo eccelso. Ma la sua espressività non si esaurisce qui, anche nei termini italiani e di uso moderno vi ritroviamo l’accento territoriale attraverso una grafia fonetica attenta a renderlo, come nello scempiamento delle doppie. Inoltre fanno la comparsa numerosi neologismi che testimoniamo la fervida creatività del proprio artefice.

Da tutto ciò ne scaturisce un’atmosfera lirica ed espressivamente potente, ancor più accentuata dai diversi echi poetici rinvenibili nel testo.

Tralummescuro è un’opera armoniosa e fluida, in grado di stregarci con la sua epoca passata ma mantenendo un occhio vigile al presente in un gioco di luce e buio.

Guccini con quest’opera non può che confermare la propria grandezza e contribuire a rinvigorire il culto nutrito nei suoi confronti. Inoltre in questa sua effigie, seppur diversa, in realtà non si ha difficoltà a scorgere il cantautore tanto amato, rinvenibile non solo nell’eleganza del linguaggio, ma anche nel modo di narrare e nelle tematiche.

Era gente che hai visto discutere se fosse miglior poeta Tasso o Ariosto, che improvvisava di poesia in ottava rima, che portava nella cassetta di legno con un po’ di biancheria di ricambio, quando andava alla macchia a fare il carbone di legna o a fare il minatore di galleria, l’Inferno di Dante, o la Gerusalemme, o l’Orlando.

Tale passo citato non vi richiama alla mente alcuni suoi famosi versi?

Io, figlio d’una casalinga e di un impiegato,
cresciuto fra i saggi ignoranti di montagna
che sapevano Dante a memoria e improvvisavano di poesia,
io, tirato su a castagne ed ad erba spagna,
io, sempre un momento fa campagnolo inurbato,
due soldi d’elementari ed uno d’università,
ma sempre il pensiero a quel paese mai scordato
dove ritrovo anche oggi quattro soldi di civiltà… (Addio, 
canzone di Francesco Guccini)




Rinnoviamo i nostri auguri all’unico e inimitabile Francesco Guccini, colui che ha fatto della parola la propria incredibile e intramontabile arte

Il nostro giudizio:

Tramavoto 5/5

Stilevoto 5/5

Piacevolezzavoto 5/5

Copertinavoto 5/5

Voto finalevoto 5/5

Francesco Guccini

Francesco Guccini è nato a Modena il 14 Giugno 1940, è cantautore, poeta e scrittore, ha inoltre insegnato lingua italiana al Dickinson College di Bologna, scuola off-campus dell’Università della Pennsylvania. La sua lunga carriera cantautoriale è iniziata con l’album Folk beat n. 1 del 1967 e si è conclusa con l’ultimo album del 2012 L’ultima Thule, in questo lasso di tempo è entrato nell’olimpo della canzone italiana d’autore con titoli di grande fama, per citarne solo uno basti pensare alla sua celebre L’avvelenata.

Mentre come autore ha esordito nel 1989 con Cròniche Epafániche, a cui segue poi Vacca d’un cane (1993), che insieme a Cittanòva blues (2003) costituisce un trittico di romanzi autobiografici del quale Tralummescuro è l’ideale compimento. Tali opere sono incentrate su luoghi importanti della vita dell’autore, rispettivamente Pàvana, Modena, Bologna e poi nuovamente Pàvana. Ha inoltre pubblicato altri racconti e romanzi, di cui alcuni in coppia con Loriano Macchiavelli, e un’autobiografia Non so che viso avesse: quasi un’autobiografia (2020).