I CINQUE CANTI DI PALERMO

di Giuseppe Di Piazza

I cinque canti di Palermo di Giuseppe Di Piazza
Genere: Thriller giudiziari
Editore: HarperCollins Italia
Pagine: 285
Edizione: gennaio 2020

a cura di Manuela Morana

Carissimi lettori, oggi vi porterò con me a Palermo, città che amo tantissimo, nella quale mio padre è nato e cresciuto prima di trasferirsi a Catania e conoscere mia madre.
Per me che ho nelle vene mezzo sangue palermitano e mezzo catanese leggere questo libro è stata una dura prova perché nelle sue pagine scorrono litri di sangue innocente, sangue di persone buone e giuste, di bambini, di giudici, di agenti delle forze dell’ordine, gente per bene che non meritava di morire così e che merita la nostra riconoscenza per il coraggio dimostrato e gli ideali perseguiti.

Sinossi

Due innamorati divisi, come Romeo e Giulietta. Una ragazza belga, stupenda e malinconica, che nasconde un terribile segreto. Un medico per bene con simpatie fasciste. Un malacarne buono a nulla che rapisce i suoi tre figli. Un “ladro onesto”, fratello di un mercante di uova di tonno alla Vuccirìa. Queste le persone che popolano le giornate di Leo Salinas, detto “occhi di sonno”, un giovane cronista di nera che ogni sera torna a casa con le scarpe sporche di sangue umano. E tanta voglia di vita e bellezza. Perché è Palermo, sono gli anni Ottanta, la giovinezza in una città sconvolta dalle guerre di mafia. Ma anche un luogo unico, di profumi, di chiese, cibo e mare. E donne bellissime, che come sirene promettono meraviglia e possono portare salvezza o perdizione. “I quattro canti” è il nome con cui gli abitanti della città chiamano la piazza che nasce dall’incrocio delle due strade principali, perché ogni suo angolo apre su uno dei quattro quartieri storici. Qui, riproponendo una versione riveduta, ampliata e corretta del suo libro di esordio, Giuseppe Di Piazza compone un quinto canto, inaspettato e fondamentale, “un canto impercettibile alla vista, il più visibile per chi è andato via da Palermo: il canto dell’assenza”. E così facendo regala al lettore un libro eccezionale, una “commedia umana” siciliana e noir che è tante cose insieme: cinque storie diverse che però sono una storia sola, il racconto della passione e del delitto, della speranza e della disperazione, una denuncia durissima contro la mafia da parte di un autore che, come il protagonista, ha vissuto quegli anni terribili e sanguinosi in prima persona. E, ovviamente, un infinito atto di amore nei confronti di una città.

Recensione

Questo libro è l’insieme di diversi racconti e ci aiuta a calarci perfettamente nell’atmosfera terribile e ingiusta di una meravigliosa e martoriata Palermo anni ’80.
Vari sono i personaggi che popolano queste pagine e a fare da filo conduttore abbiamo un meraviglioso protagonista, un giovane giornalista che si occupa di cronaca nera, Leo Salinas.
Questo giovane palermitano vive ogni giorno esperienze inimmaginabili per la maggior parte delle persone, è sempre pronto a correre sul luogo del delitto ed è anche molto bravo ad aiutare la polizia nelle indagini.
Niente sembra impressionarlo o riuscire a togliergli la fame e la sete di cibo, cultura, bellezza e soprattutto di vita.
È un palermitano per certi versi inconsueto, infatti, a differenza della maggior parte dei suoi amici e della gente che lo circonda, lui non rinuncia a sognare e a sperare nel futuro ma rispetta chi, come il suo ex compagno di scuola Roberto, si tiene attaccato ai ricordi con una malinconia dolce e, per certi versi, confortante.

Come molti palermitani, viveva ostinatamente nel passato; il presente non era che una deformazione spesso inutile di ciò che era stato. A riprova della bontà di questa teoria, Roberto e gli altri mi citavano la grammatica siciliana: l’unico passato previsto è quello remoto, e non esiste il tempo futuro. Al massimo, volendo esagerare, un palermitano usa il presente.
Tutto vero.

“I cinque canti di Palermo” racconta con parole sincere e dirette un mondo sconosciuto ai più, un mondo che fa paura e sul quale circolano tante voci ma si hanno poche certezze.
È per questo che i brani che mi hanno colpita più nel profondo sono quelli che raccontano di “Cosa Nostra” dall’interno, attraverso le parole dei pentiti che, con semplicità, ci spiegano cose che per loro sono del tutto ovvie, quanta verità o menzogna ci sia nelle loro parole non è facile capirlo, ma quello che risulta evidente a tutti è che la mafia segue una propria logica e che per chi nasce in quelle famiglie tutto ciò è assolutamente normale.

L’uomo che accese la luce si chiamava Tommaso Buscetta. Fino al giorno in cui cominciò a raccontare come funzionava la mafia, si viaggiava nel buio dell’ignoranza.
La prima cosa che il Boss dei due mondi spiegò al giudice Giovanni Falcone è che la parola mafia non esiste: per gli affiliati si chiama la Cosa Nostra. La seconda è che il governo mafioso è in mano alla commissione, detta anche cupola. La terza è che per diventare mafioso si deve prestare giuramento.

Un altro passaggio che lascia il segno è quello che racconta delle vicende del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, un uomo molto intelligente e capace, onesto, retto, un uomo nato in provincia di Cuneo e morto a Palermo insieme alla moglie, Emanuela Setti Carraro, e all’agente della scorta, Domenico Russo.
Un generale e un prefetto che aveva combattuto contro le ingiustizie per tutta la vita ma che aveva capito di essere stato lasciato solo dalle istituzioni, sapeva di aver ricevuto una carica “vuota” senza i relativi poteri a difenderlo.
La mafia ha sempre ritenuto che il controllo del territorio fosse uno dei fondamenti del potere. Sei potente solo se controlli, se tutti sanno che hai il controllo. Nella primavera dell’82, quando il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa venne nominato prefetto di Palermo, si aprì un dibattito sui poteri conferiti con il nuovo incarico al leggendario cacciatore di terroristi. Il dibattito si concluse presto: a Dalla Chiesa lo Stato non aveva dato alcuna facoltà speciale. Ne convennero tutti, compreso lo stesso Dalla Chiesa, che pretese spiegazioni per questo trattamento dall’uomo che lo aveva inviato in Sicilia, il ministro dell’Interno, Virginio Rognoni.
Ottenne promesse mai mantenute, non poteri. Cinque mesi dopo la mafia assassinò il generale, la moglie Emanuela Setti Carraro e l’autista Domenico Russo.
Un abitante del quartiere affisse sul luogo dell’eccidio un cartello scritto a penna:

Qui è morta la speranza dei palermitani onesti.

Era momentaneamente vero. Ma l’uccisione di Dalla Chiesa conteneva l’altra verità, ben nota alla mafia: non si vince se non si ha il controllo. Dalla Chiesa era intelligente ma inerme. A differenza dei boss che ne ordinarono la morte. I capi di Cosa Nostra non solo avevano il potere del controllo, ma avevano anche il dovere di dimostrarlo. Le uccisioni dovevano essere esemplari. Tutti dovevano capire.

Giuseppe Di Piazza, palermitano di nascita, ha cominciato la carriera giornalistica nel 1979 presso il quotidiano “L’Ora” di Palermo e adesso è responsabile del supplemento romano del “Corriere della Sera”.
Proprio perché quegli anni li ha vissuti davvero è riuscito a creare un romanzo autentico, sentito, forte e mai banale. Un libro che ti imprigiona alle sue pagine nel quale Leo Salinas rappresenta quasi un suo alter ego e le vicende raccontate possono considerarsi quasi come un’autobiografia dell’autore che dopo tanti anni ha sentito il bisogno di donarle e condividerle con noi, riportando alla memoria volti e nomi che non devono essere dimenticati.
Le vicende della città di Palermo si legano in modo indissolubile a quelle di Leo Salinas. Il nostro cronista, con le suole sempre sporche di sangue, rincorre i primi amori, scopre la felicità e la disperazione, a volte si vede costretto a lasciar andare alcune persone alle quali pensava di tenere molto e si trova spesso a fare confronti tra ciò che ha e ciò che potrebbe avere, magari anche a costo di portarlo via a un amico.
La vita non è semplice per nessuno ma ci sono delle scelte che vanno fatte e dei limiti che non vanno mai superati e ogni volta che il nostro Leo si ritrova a pensare a quegli anni a Palermo si rende conto che tutte quelle storie e quelle persone sono ancora dentro di lui e ci resteranno per sempre, perché vivere la storia di una madre che vede sparire i figli per mano del marito, o quella di un ladro che ruba la “cosa sbagliata alla famiglia sbagliata” e per questo paga un carissimo prezzo, o ancora quella di un medico onesto ucciso perché ha deciso di non piegarsi e sottomettersi alla mafia, non è stato facile.
Tuttavia anche adesso la vita non è semplice perché nonostante tutto andare via da Palermo, e più in generale dalla Sicilia, non è mai una cosa che riesci a fare a cuor leggero.
Non è facile dimenticare le proprie origini, lasciare amici e parenti e ricominciare tutto da un’altra parte, niente riesce a toglierti da dentro tutte quelle emozioni e quei ricordi che solo la tua terra natale riesce a darti, soprattutto se sei una persona onesta, soprattutto se tu contro quella mafia e quei pregiudizi hai provato a combattere. Soprattutto quando incontri in giro per i tuoi viaggi gente che appena sente parlare di Sicilia ti chiede come prima cosa della mafia invece che di tutte le cose meravigliose da vedere, toccare, odorare e mangiare, tutte quelle cose che per te saranno sempre “casa”.
È così che nasce il titolo di questo libro “I cinque canti di Palermo”, da questi sentimenti che mi ritrovo a vivere ogni giorno così come tutti i miei conterranei che adesso si trovano lontani da casa. Si parla di “cinque canti” perché, oltre ai quattro famosissimi canti (angoli) formati dall’incrocio tra via Maqueda e Via Vittorio Emanuele, il quinto canto è quello dell’assenza e della malinconia che non abbandonano mai il cuore di qualunque siciliano che è costretto a lasciare la sua amata terra per cercare lavoro e fortuna perché, citando una persona saggia, “Puoi togliere un Siciliano dalla Sicilia, ma non potrai mai togliere la Sicilia dal cuore di un Siciliano” e quando ne incontrate uno, per favore, dategli la possibilità di farsi conoscere per quello che è, senza etichettarlo come “mafioso” basandovi su sciocchi pregiudizi, perché, vi assicuro che, la Sicilia tutto è tranne che mafia.

Il nostro giudizio:


TramaVoto 5


StileVoto 5


PiacevolezzaVoto 5


CopertinaVoto 5


Voto finaleVoto 5

Giuseppe Di Piazza

Giuseppe Di Piazza è un giornalista, fotografo e scrittore italiano. Ha lavorato nel 1979 al quotidiano “L’Ora” di Palermo e poi si è trasferito a Roma. Nel 1986 inizia a lavorare per “Il Messaggero” dove resta per quindici anni prima come capocronista, poi come caporedattore di Interni e Giudiziaria, editorialista, ed infine caporedattore centrale. Nel 2000 si trasferisce a Milano, come vicedirettore della multimedialità di “Rcs MediaGroup”. Ha diretto il settimanale “Corriere della Sera Magazine” e dal 2017 è responsabile del supplemento romano del “Corriere della Sera”.
È sposato, ha tre figli, e vive tra Roma e Milano. Ha all’attivo diverse mostre fotografiche e diversi libri pubblicati.
Si ringrazia la casa editrice per averci cortesemente fornito il materiale.