Il vino dei morti

di Romain Gary

Il vino dei morti di Romain Gary
Genere:Narrativa
Editore: Neri Pozza
Pagine:192
Edizione:29 Aprile 2021


a cura di Rosa Zenone


Cari lettori,
oggi con forte entusiasmo voglio presentarvi Il vino dei morti dello scrittore lituano naturalizzato francese Romain Gary, prima opera dell’autore e pubblicata postuma, un libro brillante e divertente che ho amato alla follia.

Sinossi

A lungo inedito e pubblicato per ultimo solo nel 2014, quando venne ritrovato da Philippe Brenot che ne ha curato l’edizione francese, “Il vino dei morti” è la prima opera di Romain Gary. Il grande scrittore di origine lituana, di recente celebrato in Francia con l’ingresso della sua opera nella Pléiade, la scrisse nel 1937, quando aveva appena diciannove anni, nella sua stanza di studente in rue Rollin, a Parigi. Il romanzo narra della fuga dagli inferi del giovane Tulipe, tra un sabba di tombe, loculi, bare e morti che, come scrive Riccardo Fedriga nella postfazione alla presente edizione, «paiono gli inquilini bislacchi di un cimitero simile a una casa popolare di Belleville», come quella di Madame Rosa nella “Vita davanti a sé”, il romanzo che Gary firmò con lo pseudonimo di Émile Ajar. Di certo, il suo giovane protagonista ha molto in comune con il giovane Romain che, negli anni Trenta, viveva con la madre a Nizza, nella pensione Mermonts in cui si aggiravano ospiti altrettanto bislacchi, o con il Gary studente e “immigrato” a Parigi, che nell’ebbrezza del vino cercava il balsamo alle sue prime pene d’amore. “Il vino dei morti”, tuttavia, «contiene in sé già tutti i romanzi di Gary», poiché anticipa largamente i tratti fondamentali del mondo narrativo dello scrittore che vinse due volte il Goncourt. Il sottile umorismo, innanzi tutto, che nelle sue pagine genera una esilarante galleria di personaggi: dal portaborse di un ministro importante al redattore del ministero delle Belle Arti, dal cantante russo di un coro cosacco al masturbatore seriale, al prete che non crede ai miracoli. Infine, il carattere disperato e grottesco, picaresco e ridanciano, insieme, della narrazione. Una proprietà inconfondibile del libro che, in un passo dell’opera postuma “Vita e morte di Émile Ajar” (1981), farà dire a Gary stesso: «Tutto Ajar è già in Tulipe».

Recensione

Il vino dei morti, un titolo insolito e accattivante, che stuzzica la nostra curiosità e fantasia, il che alimenta delle aspettative che non vengono deluse, bensì addirittura superate. A fare da padrone, infatti, è la fervida immaginazione dell’autore, un’immaginazione che appare priva di limiti e procede totalmente a briglia sciolta.

La narrazione è incentrata sul viaggio condotto negli inferi da Tulipe, ciò rappresenta il nodo centrale del romanzo, ma vi è da sottolineare come il libro sia privo di una vera e propria trama omogenea: andrebbe considerato più come un insieme di storie legate tra loro e fondate su una cornice di base comune.

“Tulipe scavalcò il cancello del cimitero e ricadde pesantemente dal lato opposto. Sì alzò subito, borbottando, poi vacillò, finì contro una croce alla quale si aggrappò con tutte le forze per non cadere.”

La traversata di Tulipe avviene in un clima surreale e di caos, non di rado dai contorni alquanto esilaranti, in un’atmosfera degna di Tim Burton. A predominare è una sensazione di straniamento a cui segue stupore e sorpresa date le situazioni caricate al limite dell’assurdo.

Parlando di viaggio nell’oltretomba, siamo soliti pensare a quello dantesco, bene, nulla potrebbe esservi più lontano di quello di Tulipe. Seppure alquanto pittoresco, quello del nostro protagonista non è dotato di una tale “levatura”: non vi è alcun fine superiore né tantomeno è rinvenibile alcun concetto di ordine, piuttosto è un concreto girovagare senza meta e scopo tra le bare.

Tulipe incontra una folta e variegata galleria di morti, descritti in una fattura macabra e lugubre di decomposizione.

“In una tomba il tempo passa così veloce! In ogni caso, all’epoca avevo ancora abbastanza carne attaccata alle ossa per potermi mostrare ai vivi… É vero che mi stavano già mangiando i vermi… soprattutto dentro… gli intestini… il fegato… il cuore… Li sentivo che brulicavano… si muovevano… strisciavano… si attaccavo al midollo… è curioso quanto piaccia il midollo ai vermi… è la parte migliore, per loro…”

Al contrario delle rappresentazioni più diffuse che considerano i morti privi di materialità, i defunti di Romain Gary sono corporei, e in quanto tali, sono inclini e mossi da necessità corporee e da un inarrestabile istinto bestiale. Essi sono corrotti nell’aspetto quanto nelle intenzioni, azioni, idee e nel linguaggio. Sono lascivi, viziosi, sguaiati, balordi e individualisti.

“Era un piccolo poliziotto con la barba, l’aria triste. Veniva avanti, la patta aperta, e con la mano libera si divertiva distrattamente ad allungare il più possibile la sua virilità, tirandola e lasciandola andare.”

I vari personaggi sono macchiette strampalate, che ben si adattano alla commedia mortifera alla quale partecipano. Gli stessi personaggi di secondo piano, conoscenti di Tulipe e menzionati dallo stesso, appaiono dei simpatici e assurdi fenomeni da baraccone. Inoltre, la strana prosopopea messa in atto dall’autore, non concerne solo i defunti, ma perfino animali e oggetti inanimati che si appropriano di tratti di personificazione, amplificando il senso dell’assurdo imperante.

Il vino dei morti è una commedia in un alone mortifero, geniale e spassosa. In totale coerenza con le vicende, utilizza un linguaggio semplice ma colorito, grottesco e licenzioso, che ben si accorda con le varie scene e che ne garantisce una resa totale. È un continuo gioco di esasperazione, rovesciamento e ambiguità in un clima onirico e visionario dalle caratteristiche fescennine. È un continuo prendersi gioco di tutto e tutti, non ne sono risparmiate le forze dell’ordine, l’amor di patria né tantomeno la religione, anzi proprio su questi elementi la mano si calca particolarmente, arrivando talvolta anche a toccare punti alquanto elevati di simpatica e irriverente blasfemia.

Il vino dei morti è dissacrante allo stato puro, un libro che non si pone regole e limiti, se non come punti da oltrepassare e infrangere; ogni confine è abbattuto, in primis quello di separazione tra morti e vivi, dove la morte diviene un rumoreggiare stravagante di vita e in grado perfino di beffarsi di quest’ultima ma anche di se stessa.

“Ma quando si è sofferto troppo, quando si è amato troppo, si continua ad amare, si continua a soffrire persino da morti!”


Il nostro giudizio:

TramaVoto 5/5

StileVoto 5/5

PiacevolezzaVoto 5/5

CopertinaVoto 4,5/5

Voto finaleVoto 5/5

Romain gary

Romain Gary (pseudonimo di Romain Kacev) nacque a Vilnius nel 1914. A trent’anni, Gary è un eroe di guerra (gli viene conferita la Legion d’honneur), scrive un romanzo, Educazione europea (Neri Pozza, 2006), che Sartre giudica il miglior testo sulla resistenza, gli si aprono le porte della diplomazia. Nel 1956 vince il Goncourt con Le radici del cielo (Neri Pozza, 2009). Nel 1960 pubblica uno dei suoi capolavori La promessa dell’alba (Neri Pozza, 2006). Nel ’62 sposa Jean Seberg, l’attrice americana di Bonjour tristesse, l’interprete di A bout de souffle. Nel 1975 pubblica, con lo pseudonimo di Emile Ajar (identificato all’inizio come Paul Pavlovitch, nipote reale di Romain Gary), La vita davanti a sé (Neri Pozza, 2005) che, nello stesso anno, vince il Prix Goncourt. Nel 1980 dà alle stampe il suo ultimo romanzo Gli aquiloni (Neri Pozza, 2017) e il 2 dicembre dello stesso anno si uccide, nella sua casa di rue du Bac a Parigi con un colpo di pistola alla testa.