INTERVISTA a FABIANO MASSIMI autore di “L’ANGELO DI MONACO”

L'angelo di Monaco
L’angelo di Monaco di Fabiano Massimi

Carissimi lettori, oggi vogliamo dedicare uno spazio particolare a Fabiano Massimi, autore di L’ angelo di Monaco (Longanesi, 2 gennaio 2020), un thriller storico che ruota intorno alla misteriosa morte di Geli Raubal, nipote prediletta di Adolf Hitler, rinvenuta priva di vita nella sua stanza chiusa a chiave dall’interno. Il romanzo è stato inoltre l’esordio italiano più venduto alla London Book Fair 2019.
Abbiamo letto il libro e ne siamo rimaste letteralmente affascinate ed estasiate. Da qui è sorta la voglia e la curiosità di approfondire la conoscenza della penna che ci ha fatto dono di una lettura tanto saziante quanto accattivante; questo è ciò che ci ha portato, ancora, all’intervista che segue.

a cura di Elide

-Ciao Fabiano, benvenuto tra noi e grazie per la disponibilità che ci hai dimostrato.

Grazie a voi, per le belle parole e per questo spazio!

-Raccontaci un po’ di te. Sappiamo che Fabiano è tante “cose” e non soltanto lo scrittore che abbiamo avuto il piacere di conoscere con “L’angelo di Monaco”. Sei bibliotecario, sei editor e sei anche traduttore, ma cosa ti ha portato a capire che questo non ti bastava più e che avevi bisogno di scrivere una storia tua?

In effetti la voglia di scrivere è venuta prima di tutto il resto, e mi ha portato nel tempo a diventare editor, poi traduttore e infine bibliotecario. Ricordo di aver avuto il tarlo della scrittura sin da bambino, e di essere cresciuto con un vero e proprio assillo che mi ha spinto a leggere, studiare e applicarmi alla nobile arte della narrativa, sia da amatore sia da professionista. Ho studiato filosofia a Bologna per conoscere Umberto Eco, mio primo maestro, poi ho seguito Alessandro Baricco, altro maestro, fino alla Scuola Holden di Torino. Lì mi sono diplomato in un master in tecniche della narrazione che mi ha aperto alcune porte nell’editoria, dove ho anche sfruttato l’inglese imparato durante un proficuo Erasmus a Manchester. Se ho aspettato tanto a esordire con una storia mia è stato solo per un fondamentale imbarazzo che ancora provo di quando in quando: quello di aggiungere un altro romanzo alla schiera sterminata dei capolavori pubblicati. Poi ho incontrato Geli.

-Domanda a cui avrai già risposto molte volte, ma perché tra tutte le storie hai deciso di raccontare proprio quella di Geli? In una delle tue recenti dirette abbiamo appreso che hai scoperto per caso di questa vicissitudine. Ti va di parlarne anche ai lettori che non hanno avuto modo di ascoltarti in quella occasione?

Geli Raubal, nipote amatissima di Adolf Hitler morta in circostanze misteriose un anno e mezzo prima che il Nazismo andasse al potere, era per me una completa sconosciuta fino al luglio del 2018. Non ne avevo mai nemmeno sentito parlare, il che spiega il motivo per cui imbattermi nella sua storia, riassunta in poche righe in un bel romanzo di Robert Harris (Monaco) mi provocò uno shock: possibile che fosse esistita davvero? E che nessuno avesse mai raccontato la sua storia, che avrebbe potuto cambiare la Storia? Iniziai a fare ricerche e a scavare, e quando scoprii che sì, la vicenda era vera e non esistevano romanzi o film che l’avessero trattata, capii che dovevo metterla in pagina io – non per vanità, né per calcolo, ma perché sentivo di avere una connessione forte con Geli, la cui memoria andava rimessa in circolo.

Pirandello sosteneva fossero i personaggi stessi a bussare alla sua porta, ti trovi d’accordo con tale affermazione? Com’è avvenuta la costruzione dei tuoi eroi? Quale è stata, se vi è stata, la maggiore difficoltà che hai incontrato nel delinearne i contorni?

Capisco ciò che Pirandello intendeva. I personaggi bussano alla porta dello scrittore tutto il giorno: sono i suoi famigliari, i suoi amici, i conoscenti e persino gli sconosciuti che incrocia per strada. Ogni gesto curioso, ogni frase ben detta, ogni mistero nelle vite imperscrutabili degli altri sono uno stimolo potente per costruire personaggi di carta e inchiostro, per metterli in dialogo, per immaginare scene ed eventi. Poi, i personaggi letterari fanno un’altra cosa sorprendente: una volta creati (o sub-creati, per dirla con Tolkien e C.S. Lewis) non ti consentono tante libertà. Capita sempre, voglio dire, che lo scrittore abbia in mente una frase o un’azione per il tuo personaggio, ma questo si ribelli, non gliela lasci scrivere. Il fatto è che un personaggio, se lo ascolti con attenzione, è una persona, e alle persone non puoi far fare quello che vuoi – a meno di usare la violenza, certo, nel qual caso però la violenza sarà evidente, e il risultato artefatto. Gli eroi dell’Angelo di Monaco, in primis Sauer e Forster, sono nati già formati dopo che avevo iniziato a documentarmi sulla Monaco degli anni Trenta. Avevo abbastanza chiara l’atmosfera dell’epoca, e per esigenze drammatiche mi serviva un eroe sofferto, che incarnasse tempi sofferti. A questo non potevo non affiancare una spalla più leggera, a rappresentare la necessità di luce che anche in tempi bui (anzi, soprattutto in tempi bui) tutti noi abbiamo. Il resto, dal loro aspetto al loro passato, è venuto scrivendo, in modo naturale. In questo senso si può dire che Sauer e Mutti si sono scritti da sé: le premesse erano feconde. La difficoltà maggiore, sia con loro sia con i personaggi storici che si incontrano nel romanzo (da Goebbels a Himmler, da Göring a Hitler stesso), è stata in effetti limitarli, trovare la giusta misura, non strafare. Con i personaggi storici, la messe di informazioni ed episodi era talmente ricca che ho dovuto selezionarne pochi emblematici; con i personaggi di fantasia, succede che quando ti affezioni li lasceresti parlare e pensare per pagine e pagine, ma non puoi. Il tempo del lettore è prezioso, devi dargli solo il meglio.

-Nel tuo libro vengono presentati diversi protagonisti ve ne è uno con il quale ti identifichi maggiormente e, se sì, perché?

Vorrei dire “con tutti”, e non sarebbe una risposta sbagliata, ma forse un po’ furba, per cui facciamo Mutti, con Sauer buon secondo. Credo di aver dato a loro due, equamente suddivisi, diversi tratti del mio carattere, anche se potenziati e idealizzati. Sauer è travagliato e idealista, Mutti epicureo e buontempone. Insieme, oso dire, farebbero un uomo perfetto, ovviamente al netto delle imperfezioni che entrambi mostrano nel romanzo. Sono queste, del resto, ciò in cui tutti possiamo identificarci più facilmente: le loro imperfezioni, e i loro errori, specchio di un’epoca che non sapeva davvero a chi si stava consegnando.

-Tra le vicende che si susseguono e i personaggi che le conducono vi è un’ulteriore grande protagonista che non si accontenta di far da contorno, da cornice: Monaco. Le suggestioni che derivano dalle tue descrizioni sono molto forti, il lettore si sente trasportato tra le sue vie tanto da riuscire a focalizzarla nella sua mente senza difficoltà. Si sente letteralmente sua parte integrante. Ma cosa rappresenta per te Monaco?

Sono molto contento se Monaco prende vita come dite, e sì, avete assolutamente ragione: è la terza protagonista dell’Angelo. Quando ci sono andato per documentarmi non mi aspettavo, lo ammetto, di rimanere così profondamente colpito dalla sua bellezza. Monaco è una città famosa, ma non quanto meriterebbe, e non principalmente per i suoi monumenti, parchi, piazze, locali. È una sorta di Firenze trapiantata oltralpe, una gemma architettonica e urbanistica che tutti dovrebbero visitare. Eppure, ed è questo l’aspetto che ho trovato più affascinante, Monaco fu anche la «capitale del movimento» nazista, quanto di più barbarico e antiumanistico si possa immaginare. Come fu possibile? Oggi non restano quasi tracce di quanto accadde meno di un secolo fa: i centri del potere hitleriano furono rasi al suolo dopo la Guerra, nei luoghi del romanzo (per esempio la palazzina in cui Geli morì) non si trova nemmeno una targa. Il motivo è chiaro, evitare pellegrinaggi e sciacallaggi, ma se non fosse per lo splendido Centro di documentazione nazista sorto sulle ceneri della Braunes Haus il visitatore potrebbe passare giorni e giorni a Monaco senza imbattersi nel suo terribile passato, così inconciliabile con l’immagine e la storia della città. Questa contraddizione feroce è uno dei motori dell’Angelo.

-C’è un aspetto particolare dell’Angelo sul quale vorresti soffermarti e renderne partecipi noi lettori?

Forse il carattere documentale del romanzo: diverse cose sono inventate, naturalmente, ma tutti i documenti citati, tutte le testimonianze messe in bocca a personaggi realmente esistiti e tutti i dettagli dell’indagine condotta nei giorni successivi alla morte di Geli sono veri, tratti da una grande quantità di testi che ho reperito durante le mie ricerche. È molto importante che il lettore non dubiti della veridicità della figura di Geli: il mio primo scopo era quello di rimettere in circolo la sua storia incredibile e incredibilmente dimenticata. Poi, trattandosi di un romanzo giallo, alla fine della storia io traggo le mie conclusioni, che possono essere più o meno aderenti all’idea del lettore. Per questo abbiamo incluso la bibliografia nel romanzo: chi vuole potrà approfondire e valutare da solo. Se questo accadesse, naturalmente, sarei solo felice, perché il mio scopo sarebbe raggiunto.

-Cosa ti ha portato a scegliere il genere del thriller storico? Quanto ha inciso la tua formazione professionale di bibliotecario nella scelta?

Domanda sottile, che presume una conoscenza della mia posizione nella biblioteca in cui lavoro! In effetti, da diversi anni ormai sono il referente della sezione Gialli, il che comporta una certa dimestichezza con il genere thriller, non fosse altro perché sono io ad acquistare le novità del genere, e quindi finisco per conoscere più o meno tutto ciò che viene pubblicato. Ma il fatto è che sono da sempre un amante del thriller storico – il libro della vita è Il nome della rosa – e anche in editoria sono spesso chiamato a lavorare su gialli, sia come traduttore sia come editor. Che la storia di Geli fosse un thriller storico mi è stato chiaro dall’inizio: dopotutto ci fu un’indagine reale, densa di misteri e colpi di scena, ambientata a sua volta in un’epoca densa di misteri e colpi di scena. Non so perché non ci abbia pensato prima qualcun altro, magari lo stesso Harris, o il grande Philip Kerr…

-Cosa rappresenta per te l’Angelo?

L’Angelo è il libro che ti capita una volta nella vita. Non dico il libro migliore che scriverò mai, perché di idee buone ne ho ancora diverse, e la voglia di ripetersi e magari superarsi è forte. Ma l’Angelo è il libro che mi ha rivelato una strada, che mi ha spinto a valicare limiti consci e inconsci, e che ha tirato fuori una voce narrativa che non sapevo di avere lì dentro da qualche parte, e ora ho ben chiara davanti agli occhi. Così, può darsi che come scrittore io riesca a migliorare (il mio editor Fabrizio Cocco, con il suo humour sornione, direbbe che ci vuole poco), ma l’importanza dell’Angelo non sarà diminuita dai suoi seguiti e successori. Il regalo che Geli mi ha fatto non avrà mai paragone.

La tua prossima opera è già in cantiere? Quando potremo leggerti ancora?

Mentre parliamo, il seguito diretto dell’Angelo –il prosieguo delle avventure dei personaggi che sono sopravvissuti a fine romanzo (e non affezionatevi troppo a nessuno, mi raccomando) – è in corso di strutturazione. Ho un’idea forte, ho l’ambientazione ben chiara, sto scalettando capitolo per capitolo l’intero romanzo, seguendo un metodo per me nuovo ma che diversi grandi scrittori utilizzano e raccomandano (per esempio Ken Follett). Nella temperie in cui stiamo vivendo faccio fatica a scrivere, il tempo libero è minore di quando avevo meno tempo, ma spero di mettere presto la penna sulla carta. Nel frattempo, a giugno dovrebbe uscire in libreria Il club Montecristo, un giallo più leggero e ambientato ai giorni nostri che inaugura le avventure degli Ammutinati, un gruppo di ex detenuti che hanno costituito una società di mutuo soccorso per aiutarsi a rigare dritto una volta fuori. Il Club ha vinto a suo tempo il Premio Tedeschi per il miglior giallo inedito, e ha avuta una prima incarnazione come Giallo Mondadori nell’estate 2017. Il suo ritorno in versione riveduta e corretta prelude alla pubblicazione di un seguito, previsto sempre in libreria per inizio 2021. L’idea, se riuscirò, è di portare avanti le due serie in parallelo, da un lato i gialli “manziniani” degli Ammutinati, dall’altro i più corposi thriller storici à la Angelo di Monaco, che siano seguiti diretti o storie ambientate in altri luoghi e altre epoche.

-Sappiamo che sei anche un gran lettore, quali sono i tuoi libri preferiti e quali rappresentano la tua spina dorsale?

In questi giorni sto consigliando un libro al giorno sui miei canali social (Twitter, Instagram, Facebook), usando la memoria giacché non ho con me la mia libreria. Tutti i titoli che cito, da Il velo dipinto a Il richiamo del cuculo, da Il senso di una fine a Mal di pietre, rientrano tra i miei preferiti di tutti i tempi. Sono clip da trenta secondi, se vi capita ascoltatele e fatemi sapere cosa ne pensate! Ma per chi avesse letto l’Angelo e cercasse consigli “in tono”, lasciatemi nominare tre titoli imprescindibili: Fatherland di Robert Harris, che racconta un’indagine delicatissima in una Germania alternativa dove il Nazismo ha vinto la guerra; La cruna dell’ago di Ken Follett, una serrata caccia a una pericolosa spia nazista che attraversa l’Inghilterra da sud a nord; Violette di marzo di Philip Kerr, con un detective-antieroe indimenticabile che si muove nella Berlino olimpica del 1936.

-Se per ipotesi non fossi tu l’autore del libro ma un semplice lettore, perché consiglieresti “L’Angelo di Monaco”?

Perché la storia di Geli vale da sola il prezzo del biglietto, e perché il romanzo è stato costruito per fare tante cose, ma soprattutto per divertire. Capitoli veloci, colpi di scena continui, luoghi e incontri sensazionali… Intrattenere, per me, non è una brutta parola, ma lo scopo più nobile della letteratura.