L’uomo dal fiore in bocca

di Luigi Pirandello

L’uomo dal fiore in bocca di Luigi Pirandello
Editore: CreateSpace Independent Publishing Platform
Genere: Classici/testo teatrale
Pagine: 30
Edizione: 2015



a cura di Mary Manasseri

Carissimi lettori e gentili lettrici, un caro saluto a tutti!
Questo lunedì vede di nuovo protagonista un’opera di Luigi Pirandello, autore ospite della rubrica Penne d’autore del mese di Luglio. Testo teatrale intenso e graffiante che ricordo meravigliosamente recitato dal grande Vittorio Gassman… oggi vi presento: L’uomo dal fiore in bocca.

Sinossi

L’Uomo dal fiore in bocca è un atto unico di Luigi Pirandello, esempio di dramma borghese nel quale convergono i temi dell’incomunicabilità e della relatività della realtà. Fu rappresentato per la prima volta il 24 febbraio del 1922 al Teatro Manzoni di Milano. È un colloquio fra un uomo che si sa condannato a morire fra breve, e per questo medita sulla vita con urgenza appassionata, e uno come tanti, che vive un’esistenza convenzionale, senza porsi il problema della morte. Pirandello, anche in questo caso, trasse il testo teatrale da una novella scritta anni prima e intitolata La morte addosso. Il protagonista è un uomo malato di tumore (il fiore in bocca) e prossimo alla morte; questa sua situazione lo spinge a indagare nel mistero della vita e a tentare di penetrarne l’essenza. Per chi, come lui, sa che la morte è vicina, tutti i particolari e le cose, insignificanti agli occhi altrui, assumono un valore e una collocazione diversa. L’altro personaggio è un avventore del caffè della stazione, dove si svolge tutta la scena; un uomo qualsiasi, che la monotonia e la banalità della vita quotidiana hanno reso scialbo, piatto e vuoto a tal punto che il dialogo tra lui e il protagonista finisce col diventare un monologo, quando quest’ultimo gli rivela il suo terribile segreto. « Venga… le faccio vedere una cosa… Guardi, qua, sotto questo baffo… qua, vede che bel tubero violaceo? Sa come si chiama questo? Ah, un nome dolcissimo… più dolce d’una caramella: – Epitelioma, si chiama. Pronunzii, sentirà che dolcezza: epitelioma… La morte, capisce? è passata. M’ha ficcato questo fiore in bocca, e m’ha detto: – «Tientelo, caro: ripasserò fra otto o dieci mesi!» La morte prevista e la morte imprevista. La vita non ha nessun valore in sé, ma quando l’individuo – sulla strada della morte – la osserva, anche i gesti quotidiani insignificanti acquistato un valore vitale. Immaginarsi simile alla stoffa significa affidarsi a cose che sembrano eterne. La vita non si conosce, però si sente il bisogno di viverla e a disprezzarla quando la morte è prevista, in modo da potersene andare con meno dolore.

Recensione

L’uomo dal fiore in bocca è un’opera teatrale che amo molto. L’emozione che provai quando ne vidi la rappresentazione sul palcoscenico mi spinse infatti a leggerne il testo scritto: ancora oggi mi sono ben presenti le parole amare del protagonista, crudo e aggressivo nei confronti di un destino che gli ha voltato le spalle, colpendolo a tradimento.


“E questo è da dimostrare bene, sa? con prove ed esempi continui, a noi stessi, implacabilmente. Perché, caro signore, non sappiamo da che cosa sia fatto, ma c’è, c’è, ce lo sentiamo tutti qua, come un’angoscia nella gola, il gusto della vita, che non si soddisfa mai, che non si può mai soddisfare, perché la vita, nell’atto stesso che la viviamo, è così sempre ingorda di se stessa, che non si lascia assaporare. I1 sapore è nel passato, che ci rimane vivo dentro. I1 gusto della vita ci viene di là, dai ricordi che ci tengono legati. Ma legati a che cosa? A questa sciocchezza qua… a queste noje… a tante stupide illusioni… insulse occupazioni…”



Le pagine di questo testo si aprono al lettore come i sipari di un teatro di paese. Se chiudiamo gli occhi, riusciamo così ad immaginarne con chiarezza il viale alberato sullo sfondo, il Caffè notturno con i tavolini, il lampione che illumina le case e il tintinnio del mandolino che arriva delicato all’orecchio.

Lui è lì, L’uomo dal fiore in bocca osserva l’avventore seduto al tavolino accanto, invitandolo alla conversazione e svelando pian piano l’anima sul proprio dolore segreto. Il fiore è il male che lo consuma, l’epitelioma, nome dolce dal sapore amaro. La vita lo ha tradito con quel bacio che ha lasciato il segno, come un’ustione che lo porterà lentamente alla morte.
Il protagonista diventa voce potente dell’autore, che apre una riflessione personale sulla vita e sulla sua dolorosa evoluzione. Un addio all’esistenza difficile da pronunciare e di cui ci narrerà tutta la fatica.


“Mi lasci dire ! Se la morte, signor mio, fosse come uno di quegli insetti strani, schifosi, che qualcuno inopinatamente ci scopre addosso… Lei passa per via; un altro passante, all’improvviso, lo ferma e, cauto, con due dita protese le dice: «Scusi, permette? lei, egregio signore, ci ha la morte addosso ». E con quelle due dita protese, la piglia e butta via… Sarebbe magnifica! Ma la morte non è come uno di questi insetti schifosi. Tanti che passeggiano disinvolti e alieni, forse ce l’hanno addosso; nessuno la vede; ed essi pensano quieti e tranquilli a ciò che faranno domani e doman l’altro.”



La vita è come una sedia che occupiamo nello studio medico, in attesa di essere chiamati… assorti in intimi pensieri e nel timore della perdita, consapevoli che altri la occuperanno dopo di noi.
La sofferenza serpeggia tra le pagine, un’afflizione vissuta in solitudine, difficilmente comprensibile da chi non si trova nello stesso scoramento.
È un’angoscia subdola, che volge su una cupa voragine interiore di cui l’uomo dal fiore in bocca ci narra con prepotenza e nel tentativo liberatorio di allontanarla… ci si chiede però se l’avventore riesca davvero a coglierne l’alienazione e il lento supplizio.

È una solitudine viscerale, non solo la sua ma anche quella della donna che gli vive accanto. La moglie di nascosto lo segue, tormentata dal pensiero di perderlo. Ella che si cela dietro l’angolo, accettando il rifiuto dell’uomo che ama, la sua rabbia, pur di poterne condividere gli ultimi giorni concessi dal destino.
L’uomo dal canto suo, non riesce tuttavia a sostenerne lo sguardo e la pietà, per questo la caccia, la umilia e la allontana, affinché per un attimo non sia costretto a sostenere l’odiata verità nel riflesso dei suoi occhi.


“E mi faccia un piacere, domattina, quando arriverà. Mi figuro che il paesello disterà un poco dalla stazione. – All’alba, lei può fare la strada a piedi. – Il primo cespuglietto d’erba su la proda. Ne conti i fili per me. Quanti fili saranno, tanti giorni ancora io vivrò.”



Nelle ultime battute si sente infine tutto il desiderio di restare attaccato alla vita… il protagonista chiede all’avventore di scegliere un cespuglio sulla sua strada, tanti più fili d’erba vi potrà contare, tanti più saranno i giorni che gli rimarranno da vivere.

Suona come una preghiera questa richiesta, il suo destino nelle mani anche di un estraneo, purché gli si conceda di rimanere aggrappato il più a lungo possibile ai giorni che gli restano. Un distacco lento e sofferto, che lui ci racconta attraverso l’arte della drammaturgia di cui Pirandello è grande Maestro, capace di dar voce ai più forti e umani desideri che ciascun individuo custodisce in sé.


“E s’avvierà, canticchiando a bocca chiusa il motivetto del mandolino lontano, verso il cantone di destra; ma a un, certo punto, pensando che la moglie sta li ad aspettarlo, volterà e scantonerà dall’altra parte, seguito con gli occhi dal pacifico avventore quasi basito.”



Concludo, consigliando la lettura di questo testo a chiunque volesse approcciarsi alla profondità di Luigi Pirandello e alla grandezza della sua scrittura. A chi vorrà goderne la delicatezza e l’amaro sapore nostalgico, auguro buona lettura e do appuntamento alla prossima recensione sul blog lepenneirriverenti.altervista.org.

Il nostro giudizio:


TramaVoto 5


StileVoto 5


PiacevolezzaVoto 5


CopertinaVoto 4,5


Voto finaleVoto 5

Luigi Pirandello

Luigi Pirandello, figlio di genitori borghesi, nacque il 28 giugno 1867 nella terra di Girgenti, che oggi conosciamo come la bellissima città siciliana Agrigento. Nonostante suo padre avesse progetti diversi in merito alla sua istruzione, Pirandello riuscì a formarsi secondo le proprie inclinazioni, prima a Palermo e Roma e poi all’Università di Bonn, importante centro culturale del tempo. Qui poté approfondire temi letterari e concentrarsi sulla sua grande passione, la filologia romanza. Frequentò così l’ambiente intellettuale tedesco, dove personalità di spicco ne condizionarono e arricchirono la formazione. Pur vivendo a Bonn però, rimase legato affettivamente alla sua Sicilia… ce lo racconta in molte delle sue opere che vi sono ambientate, ripercorrendo con il ricordo nostalgico le storie della sua gente e della sua terra, tanto ruvida quanto meravigliosa. La vita di Pirandello si rivelò nel tempo molto faticosa. Dopo essersi sposato con una conterranea, Maria Antonietta Portulano, la famiglia attraversò un difficile periodo dal punto di vista economico. Un alluvione e una frana distrussero la miniera di zolfo di proprietà del padre, che portò ad un tracollo finanziario di grande peso per le sorti dell’uomo e dello scrittore. Per rialzarsi dal dissesto economico e familiare tanto grave, iniziò così a scrivere per mantenersi e, successivamente, ad insegnare in una scuola femminile, dal 1897 al 1922. Difficile fare un escursus sulle sue infinite opere, possiamo però ricordare le più famose. Tra i romanzi “Il fu Mattia Pascal”, “Uno, nessuno e centomila” e “L’esclusa” sono tra i più noti. Tra le novelle, indimenticabili sono “Ciaùla scopre la luna”, “La giara” e “La verità”. Tra i testi teatrali di grande fascino infine, citiamo “L’uomo dal fiore in bocca”, “Liolà”, “Sei personaggi in cerca d’autore” e “Questa sera si recita a soggetto”. Egli vinse il premio per la letteratura nel 1934, e si spense nel 1936 per una grave polmonite.